In ospedale vige la gerontocrazia, lo capisci subito, non ci vuole molto a scoprirlo... ti svegli presto, i pasti sono a mezzogiorno e alle diciotto e poi, dopo, rimani per il resto del tempo a vegetare che alle nove di sera ti sembra di esser sveglio da chissà quanto tempo finendo per infilarti a letto, stanco e annoiato. Io dovrei trovarmi qua dentro per guarire da me stesso ma, quando non si ha scopi, nella vita, diventa davvero stupido vivere... tirare a campare il più a lungo possibile, cercando di preservare al meglio il proprio corpo e come veniamo ricompensati? Con la vecchiaia! Insomma maggiore è il desiderio di restare a questo mondo e maggiore sarà il prezzo che dovrai pagare: la decadenza fisica, il rallentamento della propria mobilità, gli impedimenti dovuti alla senilità, l'inesorabile perdita graduale della memoria e della dignità... non ha senso! Che poi, i vecchi, sono di molto simili ai tossici di lungo corso, si rassomigliano tutti tra loro! Hanno la pelle grigia e grinzosa, la dentatura sporadica e gli tocca trascinarsi seco quel fardello ambulante che è il proprio corpo fino alla fine dei loro giorni. I vecchi non si fanno di sostanze, loro si fanno di vita, quella stessa vita che li ha ridotti come sono adesso. Ma, invece di vicoli poco frequentati, loro, li ritroverai ritti e immobili come statue a fissare i cantieri.
Una rubiconda infermiera panzona ci avvertì che era pronto il vitto. "Tutti a tavola!" tuonò graziosamente dal corridoio mentre ci avvicinava il portavassoi. Noi, come un'orda di morti viventi, ci appropinquammo tutti, lentamente, nella sala da pranzo. Ogni vassoio portava il nome del paziente, l'infermiera chiamava uno ad uno e poi ci consegnava la nostra razione di pane quotidiano. Alla fine eravamo in cinque, i pazienti, pronti a nutrirci.
Mangiare per me è sempre stata una perdita di tempo. Difficilmente mangio quando sono solo e l'idea di metterci di più a cucinare che a consumare il cibo mi fa passare ogni voglia di mettermi dietro i fornelli, ignorando i morsi della fame. Una delle cose più agghiaccianti, poi, sono i pranzi o le cene in compagnia: un assembramento di persone riunite ad un tavolo, tutte ben vestite e contente di essere dove si trovano, che parlano e ridono e schiamazzano, mentre le loro fauci masticano, inghiottiscono, bevono, trangugiano, biascicano, deglutiscono, sputacchiano e ruttano. Uno spettacolo, ai miei occhi, più stomachevole e rivoltante della defecazione.
Tentando di nascondere il mio disgusto dovuto alla visione ed all'ascolto di tutte quelle bocche masticanti guardavo un po' cosa la sorte mi aveva riservato con i miei nuovi compagni di malessere. Agostino lo conoscevo, poi c'era Mauro, un uomo anziano, fiero nella sua senilità, con gli occhi di ghiaccio ed una smorfia simile a quella che stavo tentando di nascondere... accanto a lui c'era una signora sulla cinquantina, Patrizia, una superstite di un esaurimento nervoso, glielo leggevi in faccia, quel broncio, tra il penoso e l'insoddisfatto, con gli occhi tristi e la schiena curvata verso il basso. L'ultima era Lorena un'ultra sessantenne con un certo gusto nel vestire, i modi garbati, lenta arrabbiata nel mangiare e con un visibilissimo tic nervoso alla mandibola.
Avevo una gran voglia di fare battute sfolgoranti per riuscire a catalizzare l'attenzione su di me, per bandire la devastante noia che impermeava l'aria del reparto. Purtroppo l'unica cosa che riuscii a dire, senza neanche alzare gli occhi dal mio piatto di brodino sciapo, fu solo un tremolante "Buon appetito a tutti".
A volte, quando la vertigine sale, l'essere umano mi spaventa e mi ripuga. Non per la sua innata nonché palese bestialità, mi spaventa per come appare ai miei occhi. Mi dimentico per un lungo istante di appartenere alla stessa sua schiatta e mi sembra di vederlo, realizzarlo, per la prima volta nella sua integra bruttezza. Questa creatura pallida, liscia, munita di vive protuberanze semoventi con, nella parte superiore del corpo, una peluria circoscritta a quella zona, una piccola proboscide al centro, due palline che si muovono velocemente ed una fessura che si apre e si chiude, che emette dei rumori piatti mentre lì, dentro, all'interno, si nasconde un qualcosa di viscido che si agita senza requie a seconda dei suoni che, da quella fessura, escono. Ecco cosa mi succede e cosa mi stava accadendo adesso. Dura solo un attimo, quando la vertigine sale, e, insieme allo strodimento ed un vago senso di nausea, mi sento le farfalle nello stomaco e nella testa e chiunque mi stia vicino, ecco, mi appare alieno e spaventoso.
Così mi alzai di scatto, impaurito, rabbrividendo, e me ne andai in camera da solo, senza dir niente a nessuno, ignorando le cortesi domande di Agostino.
Poco dopo, ai piedi del mio letto, mi si parò davanti Mauro. Mi fissò e mi studiò a lungo, come se fosse un dottore, coi suoi occhi di ghiaccio oscuro. Aspettò che mi tirassi su e lo guardassi in faccia.
"Ho capito, prima, cosa ti è preso... non puoi farci niente", disse dopo una lunga pausa.
"L'apatia è un dono concesso a pochi, è la qualità del non essere e del non agire, proprio come se si fosse completamente realizzata la mostruosità della natura umana. E' come essere obbiettori di coscienza, con la coscienza di ciò che è l'uomo nel suo intero."
Senza chiedermi il nome e senza aspettare da me una replica, quel vecchio dinoccolato, se ne andò.
Io, sentendomi capito, per una volta, capito davvero, senza dover spiegare con voli pindarici niente a nessuno, capito e basta, chiusi gli occhi.
Il mio entusiasmo era arrivato ad un punto talmente morto che, da giorni, l'unico piacere, oltre gli speed-ball, concessomi era quel momento di veglia pesante, quello che senti poco prima di cadere addormentato. Mi era rimasto solo il sonno adesso, qua all'ospedale. L'unica fonte di piacere che potevo provare era quella di non essere, di dimenticarmi di me stesso giusto per qualche ora.
Dormii per tutto quel pomeriggio fino alle cinque che, sorpresa sorpresa, dal SerT mi avevano fatto recapitare un bel 4 ml di Metadone concentrato: una vera e propria soddisfazione per uno che stava lentamente entrando in calo. Bevvi e brindai dentro di me al ''gusto pieno della vita'' e ricollassai fino a poco prima delle sei di sera, fin quando il buon Agostino, con la sua remissiva cortesia, mi svegliò perché pronto il vitto.
La cena fu meno traumatica del pranzo, il metadone si era fatto sentire ed io mi trovai più loquace del solito. Iniziai a conoscere un po' i miei colleghi di crisi. Mi sentivo brillante e credevo di infilare, in ogni frase, qualche citazione o nome altisonante della letteratura novecentesca, la mia preferita.
Patrizia, più di Lorena, era rimasta colpita dalla mia verve e dal mio sarcasmo macabro poiché rideva ad ogni mia cinica sentenza.
"La vita, disse una volta Schopenhauer, è come un pendolo, lui la vedeva così, che oscilla tra il dolore e la noia... e quelli erano i lati positivi!" dissi riciclando una battuta che avevo usato qualche tempo addietro.
Patrizia si mise a ridere, sommessa ma non affettata. Questo giovò alla mia autostima e rivendicò la dignità di una battuta che, al suo esordio, fu incompresa a causa del pessimo pubblico che avevo davanti.
Finita la cena venni a sapere che l'ultima stanza in fondo al reparto era stata adibita a Sala Fumatori. Almeno quella dipendenza, mi dissi rallegrato di un paio di grammi, posso continuare ad esperirla. Venne anche Lorena e chiese se poteva venire a fumarsi una sigaretta, se non disturbava... io dissi che no, affatto, anzi! Mentre poi, in realtà, lasciai la vecchia nevrotica a farsi fottere, per conto proprio, nella sala fumatori, biascicando il nulla grazie al suo continuo tic nervoso.
Tornai in camera piuttosto soddisfatto che scocciato, Agostino era sempre disteso sopra le coperte a fissare il muro dalla mia parte.
"Ecco il nostro Bardamu", mi accolse monotono.
Mi misi a dormire. Erano le otto di sera e, così, gloriosamente, finiva il mio primo intero giorno da internato in psichiatria e, altrettanto, finiva il mio primo intero giorno da tossico in via di riabilitazione, finiva nel sonno di nuovo, nell'oblio e negli intrattenimenti bizzarri ed immemori del subconscio.